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Padre Puglisi, jazzista del Vangelo quella lezione da imparare a inizio anno

data articolo 15/09/2021 autore La Repubblica categoria articolo RASSEGNA
 
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Le idee/1

“Santissimo Crocifisso, le vostre grazie si avverano spesso, questa giornata non deve passare, che questa grazia ci dovete fare!”. In questi giorni, saranno tanti i genitori esausti che vedono realizzata la grazia della riapertura delle scuole. E quale miglior taglio del nastro se non quello di parlare ai ragazzi di Padre Puglisi?

A lezione di legalità dovremmo andare un po’ tutti, di certo non ci farebbe male un richiamino, almeno per sfatare una volta e per tutte frasi come «Il silenzio è d’oro e la parola è d’argento», «la meglio parola è quella che non si dice», «orbo, sordo, e taci, e campi cent’anni in pace», tra l’altro vi sembrerà una coincidenza ma in Sicilia, i mafiosi e i preti vengono entrambi chiamati con Don: Don Ciccio, Don Totò, Don Cecè. E se il parroco è inteso come padre, il mafioso è inteso come “padrino”, ma deve essere «un pezzo grosso, la testa dell’acqua, il reuccio, il padrone del pastificio», altrimenti viene chiamato: «zizì, un amico, panza sucata, picciotto, malantrino, cacocciola, spacca e lesa, guarda-piazza», perché per contare deve essere «panciuto, un sant’uomo, un pezzo di novanta» che prende questo nome dall’opera dei pupi alti per l’appunto 90 cm!

Ai tempi dei canonici di legno, si racconta che c’erano cinque fiumi a Palermo e poi, un giorno di notte hanno saccheggiati, li hanno insabbiati, come speso accade in Sicilia con le nostre cose nostre. Ma quando cade acqua di cielo, i fiumi tirano calci e le strade si aprono fino a sfaldarsi, quasi a voler presagire un castigo.

Forse dovremmo un po’ tutti chiederci del perché a Palermo non piove quasi mai, ma tuti hanno sempre il carbone bagnato!

Tu, invece Padre Pino, rimani un fiume d’acqua cheta che ci ha attraversato anima e cuore, una lezione che non si dimentica, nemmeno dopo 28 anni.

Sei quel Cantico delle Creature jazzato che nessuno mai ci avrebbe neanche solo accennato tra le spire di Brancaccio, lì, dove il fratello si gioca il fratello a “tressette”. E poi una sera di metà settembre, nel giorno del tuo compleanno, ti chiesero a bruciapelo: «Cos’e l’amore?» Da quel momento hanno aperto occhi in tanti, pure i santi, tanto che venne il Papà a beatificarti, e che se lo aspettava quel tuo sorriso prima della dipartita?

Così può accadere che per grazia ricevuta, un mafioso può anche fare carriera al contrario e diventare un collaboratore di giustizia.

Anche loro hanno una nomenclatura ben acclarata, e sono detti: «Pentiti, muffa, muffiti, cantanti, confidenti di questura, panza lenta, budello liscio, lento in cascione…» di chi non sa tenere un segreto, un spione come il cassetto che se è lento non aderisce e fa vedere cosa c’è dentro!

In Sicilia come a Palermo, non proverà spesso, ma continua a urlare il vento di tutti coloro che vennero a marcare alla tavola del suo petto, e a quella tavola divideva il pane ogni domenica, Padre Pino Puglisi, pane per tutti, per gli amici e per i nemici e a tutti gli smuoveva le coscienze e le cervella, e questo Padre Pino, lo fa ancora da lontano. Per questo lo ringraziamo.

“Agli amici e ai nemici, a tutti lui smuoveva le coscienze e le cervella. E questo Don Pino lo fa ancora da lontano Per questo lo ringraziamo”

Le idee/2

Le tre autocritiche che non abbiamo letto nelle parole dell’arcivescovo Lorefice sul Beato

di Augusto Cavadi

Un arcivescovo-pastore ha saputo tratteggiare, con sobria autenticità, la figura di don Puglisi, martire-pastore. Chi conosce un po' la situazione ecclesiastica siciliana, però, non può evitare di notare una lacuna: l’autocritica. Almeno su tre aspetti della questione. Primo: di Pino Puglisi, monsignor Lorefice scrive partitamente – che «era veramente un pedagogo, aveva nel sangue una capacità maieutica: far crescere l’altro e condurlo alla vita adulta, alla piena statura dell’intrinseca e inalienabile dignità umana, alla libertà dei figli di Dio». Ma i preti della nostra diocesi sono, in maggioranza, sulla stessa linea emancipativa o mostrano diffidenza, paura, talora disistima nei confronti dei fedeli laici delle proprie comunità? L’arcivescovo sa quanti sono i suoi preti (anziani e – cosa ancora più triste – giovani) arroccati nella propria posizione di “capi”, incapaci di condividere responsabilità e funzioni con donne e uomini della parrocchia, molto spesso più “maturi” e più “saggi” di loro. E chiaro che non dipende da un arcivescovo la mentalità dominante dei sui presbiteri, che egli deve costruire case con gli operai a disposizione. Ma ammettere, pubblicamente, che ancora troppi parroci si interpretano e si comportano come “boss” cui di deve rispetto e obbedienza, sarebbe un atto di trasparenza evangelica.

Secondo aspetto: secondo monsignor Lorefice, don Pino Puglisi, convinto che «il Vangelo diventa lievito di trasformazione della storia», «si era battuto per avere scuole, centri per anziani e giovani, spazio aggregativi e di confronto, coinvolgimento delle istituzioni». Ebbene, anche su questo versante, quando si ode la voce della comunità parrocchiali per chiedere a fianco dei cittadini di ogni appartenenza religiosa o partitica, che le istituzioni funzionino almeno decentemente a presidio della legalità sostanziale? Il clericalismo, denunziato tante volte dall’ attuale papa-pastore francesco, è solitamente congiunto a un devozionismo auto-referenziale: la vitalità di una parrocchia viene misurata sul numero delle “prime comunioni” e delle “cresime” che vi si celebrano; non sulla incidenza reale del tessuto sociale circostante, al cu degrado ci si abitua come a dati naturale immodificabili.

Infine, un terzo aspetto della questione: memore della ricerca intellettuale in cui era impegnato il parroco di Brancaccio, l’arcivescovo di Palermo (che nel suo discorso di presentazione dal balcone del Municipio citò Peppino impastato accanto a don Puglisi) ricorda che «l’antimafia vera è quella di uomini e donne che nella fedeltà agli impegni della loro vita personale. Familiare e sociale, erodono il campo della cultura e alla prassi mafiosa che arreca un grave pregiudizio allo sviluppo economico, sociale e culturale dei nostri territori». Perfetto! Ma per contrastare la cultura e la prassi mafiose bisognerebbe conoscerle, o no? Avere delle cognizioni essenziali, ma scientificamente serie e aggiornate. Tranne qualche lodevole eccezione di preti ben noti(che, tra l’altro, dopo essere stati isolati dai propri confratelli come fastidiosi grilli parlanti, sono andati o si avviano ad andare in quiescenza per ragioni di età) e di qualche laico-credente (che, comunque, percepisce se stesso come voce clamante del deserto), una formazione sulla mafia – sulla sua storia, sulla sua struttura attuale, sui legami con la politica e l’economia, sulla sua visione del divino e dell’etica – è pressoché assente sia nel percorso di studi teologici dei nuovi preti sia nelle catechesi parrocchiali per giovani e per adulti. Così anche negli ambienti ecclesiastici, come nel resto della società italiana, la mafia c’è se spara e fa stragi col tritolo; non c’è se chiede il pizzo all’ottanta per cento dei commercianti e degli imprenditori di ogni settore; se ricicla somme da capogiro mediante banche compiacenti; se corrompe funzionari pubblici ad ogni livello per lucrare sullo smaltimento dei rifiuti o sullo spaccio delle droghe illegali. L’ignoranza sul vero volto del sistema mafioso – sulla ammirevole capacità di mantenere l’identità tradizionale adattandola alle svolte epocali – è un regalo che le agenzie educative (dunque anche le chiese cristiane) non dovrebbero permettersi di omaggiare gli uomini e le donne del disonore.

“La sensazione è che negli ambienti ecclesiali, come nel resto della società italiana, la mafia c’è solo se spara e fa stragi col tritolo”

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