«Basta con lo stereotipo di padre Pino Puglisi che ha combattuto Cosa Nostra con il sorriso». Sa di ricorrere a una provocazione Maurizio Artale quando racconta il primo prete ucciso dalla mafia che la Chiesa ha dichiarato beato. Il sacerdote che nel quartiere “dimenticato ” di Palermo in cui era nato e dove era parroco, Brancaccio, ha fondato il Centro di accoglienza “Padre nostro” di cui Artale è presidente. «Soffermarsi soltanto sul suo sorriso significare svilire don Pino e ridurlo a una cartolina tradendo le sue intuizioni – riflette Artale -. Invece lui aveva dato l’esempio su come si potessero salvare le persone e quindi sottrarle alla malavita: si muoveva per le strade, aiutava i più poveri, andava a trovare i detenuti, educava i ragazzini alla legalità, accoglieva le madri maltrattate». È ciò che continua a fare il Centro “Padre nostro” che declina nel quotidiano, fra le pieghe e le piaghe del capoluogo siciliano, l’eredità del beato. Oggi la città celebra i 31 anni dell’assassinio del “prete della rivoluzione evangelica” avvenuto il 15 settembre 1993 davanti all’appartamento di famiglia, nella piazzetta di Brancaccio che ora porta il suo nome.
Artale ripete le parole del sacerdote martire: “Se ognuno fa qualcosa…” E per onorarne la memoria il Centro si affida ai gesti più che ai discorsi. «Fra una settimana, il 24 settembre, inaugureremo la Casa di accoglienza per le donne vittime di violenza. E il giorno successivo ci sarà il taglio del nastro del poliambulatorio di prossimità a Brancaccio». Un presidio sanitario che è frutto della ristrutturazione di un bene confiscato alla mafia. «Abbiamo trovato 250mila euro per rimetterlo, grazie a Gvm Care & Research, gruppo ospedaliero italiano presente a Palermo con Maria Eleonora Hospistal», ripercorre Artale. E aggiunge: «Ciascuno deve fare la sua parte per il bene della comunità. Vale per la gente, vale per le istituzioni, vale per la Chiesa. Non è sufficiente additare le carenze pubbliche se poi non ci si impegna a porvi rimedio. Certo è vero che le istituzioni intervengono a intermittenza, mentre la loro luce dovrebbe essere continua».
Come dimostra anche il travagliato iter dell’asilo “I piccoli del beato Puglisi”, sogno del sacerdote per il quartiere che è stato il fortino della criminalità. Il progetto del Centro “Padre nostro”, benedetto da papa Francesco nel 2018 durante la sua visita a Palermo per i 25 anni dalla morte del “prete degli indifesi”, ha rischiato di naufragare in mezzo a pastoie burocratiche e strane “mani” che ne volevano bloccare la realizzazione dopo il finanziamento arrivato dallo Stato. «Entro dicembre verrà indetta la gara. A primavera si aprirà il cantiere. E alla fine del 2025 i lavori dovranno concludersi. Così nel 2026 i bambini di Brancaccio entreranno nell’asilo. Se non ci siamo mai arresi, è anche merito dei lettori di Avvenire che hanno contribuito all’iniziativa e della fondazione “Giovanni Paolo II” che ci è sempre stata accanto». Una pausa. «Oggi parliamo di ragazzi che uccidono in famiglia o che sono estranei ai genitori. Don Puglisi lo aveva compreso già quarant’anni fa quando dicevano che il riscatto della gente passa dalla formazione dei giovanissimi».
Lunedì scorso il Centro ha presentato nel cuore di Palermo lo sportello per le vittime di reati e per i programmi di giustizia riparativa. «Don Puglisi ci ha insegnato ad aiutare chi ha sbagliato a rialzarsi, cominciando da quanti sono in carcere», sottolinea Artale. E in questo «è stato maestro di accoglienza». Lo conferma anche il vocabolo che ha voluto fosse scritto nella denominazione del Centro “Padre Nostro”. «E nei suoi luoghi abbiamo invitato i rappresentanti del Consiglio dei giovani del Mediterraneo voluto dalla Cei – annuncia il presidente -. Saranno a Palermo dal 7 al 10 novembre: non solo alla Facoltà teologica di Sicilia ma anche a Brancaccio per conoscere un testimone che ha fatto della fraternità e dell’inclusione le coordinate della sua vita».
di Giacomo Gambassi
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