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Viaggio nel moderno carcere palermitano, dove è approdato il progetto legalità dell'associazione magistrati. E dove non pochi pensano ad un futuro onesto

data articolo 29/07/2004 autore Giornale di Sicilia categoria articolo RASSEGNA
 
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Articolo del Giornale di Sicilia
Articolo del Giornale di Sicilia
"Purtroppo siamo in Sicilia: nessuno può resistere….". Mario è un giovane di Catania, sicuramente non avrà più di 40 anni. Da tre anni è detenuto al Pagliarelli per vicende di mafia e rapine. Dietro le sbarre alte ed ingiallite della sua cella, al terzo piano del settore Ionio, s'intravedono appena le mani ed un visino giovane lucido di sudore. "Sintissi", dice con un dialetto marcato. Ha qualcosa da dire e far annotare sul taccuino del cronista. Forse una rivelazione, un messaggio? No, non parla della sua storia personale, della sua vicenda giudiziaria. Non guarda né al passato e neanche al futuro. I suoi occhi sono fermi al presente di un'estate che si preannuncia difficile da vivere. "Purtroppo – aggiunge -siamo in Sicilia, c'è il sole". Poi Mario si avvicina alla finestra della porta, indossa una canottiera ad ampia smanicatura per lasciare più libertà d'azione alle ascelle. "C'è u suli", insiste in una discussione che sembra banale. Ma qui nel carcere più moderno di Palermo, rinchiusi in una stanza di pochi metri quadrati, con dentro brande a castello, uno sgangherato televisore a colori, un cucinino con pentole e padelle inchiodate al muro e due pensili sicuri per custodire la roba, diventano essenziali anche le cose superflue. Ed anche il sole può diventare un problema, che sfiora l'emergenza, se la cella è esposta tutto il santo giorno ai suoi raggi cocenti che infuocano le grate di ferro, trasformano la celletta in una sauna e rendono ancor più irrespirabile l'aria invasa da un forte tanfo di vecchie scarpe, di frutta dimenticata a marcire nel cassettino e dalle ghiandole sudoripare che rendono difficile la convivenza di sette persone rinchiuse in un monolocale che a malapena potrebbe ospitarne quattro, forse tre. "Guardia!!! - incalza ancora Mario-Signora Guardia, ma non è possibile mettere una tenda davanti alle sbarre esterne per attenuare la potenza dei raggi solari?". Domanda banale, un po' meno la risposta secca e senza tentennamenti. "No, renderebbe più difficile il controllo delle sbarre ed il regolamento non lo prevede". Già, il regolamento e gli ordini che non si discutono mai. Neanche quando lasciano spazio all'interpretazione. Nessuno sfugge alla severità dei luoghi, neanche collaboratori di giustizia, rinchiusi tutti nel settore Eolo: unica agevolazione concessa la cella "singola", per vivere in solitudine un momento delicato della loro esistenza. "Non siamo liberi di condirci come si deve un bel piatto di pasta, dice ancora Totò, un agrigentino, mentre i compagni di cella annuiscono ed approvano. Nelle carceri è vietata l'introduzione di formaggi morbidi, dunque anche la ricotta. Ma perché bloccare l'ingresso della benedetta ricotta salata sapendo che si tratta di un alimento duro?". Regolamento e banalità di una vite scandita dall'ozio, dove tutto, anche la cosa più semplice quasi mai a portata di mano. Dove neanche la legalità ha il tono della riconciliazione: da anni la legge ha abrogato le vetrate dei colloqui tra i detenuti e familiari ma è tutto bloccato nel nome della burocrazia i cui tempi non sono mai quelli della vita. Qui ad un passo del cupolone normanno della cattedrale, che s'intravede dietro il giardino del parco d'Orleans, il rigore e l'attività di sicurezza rende difficile perfino affrontare il problema delle zanzare. D'estate è un dramma, perché l'unico rimedio contro il caldo è quello di lasciare aperta la finestra, ultimo avamposto difensivo. E la cella, così, diventa un bersaglio facile facile dove rimbomba il ronzio d'insetti che popolano la zona. Inutile dire che l'istituto di pena è stato costruito, forse nel posto sbagliato perché è a ridosso di un fiumiciattolo che in alcuni tratti diventa fogna a cielo aperto. Tre anni fa il comune penso di crearvi anche un cimitero, ci fu quasi una sommossa. Alla fine l'iter venne bloccato "con grande soddisfazione" perché si scoprì in tempo che l'ampia zona è caratterizzata da cave a fossa e ristagni di acqua putrida. Il Pagliarelli negato ai defunti mentre i reclusi soffrono il caldo che inasprisce la permanenza e spesso anche il rapporto con l'amministrazione penitenziaria. Eppure nonostante i problemi di vivibilità, aggravati dalla chiusura per lavori in una sezione e l'inevitabile sovraffollamento delle altre (popolate ora da otto persone) in questo istituto di penasi coglie un respiro nuovo. Una svolta? E' probabile, ma oggi quel che il Pagliarelli mostra è il volto di un penitenziario dove i giovani mafiosi parlano di mafia con una certa inquietudine e spirito critico; dove il recluso comincia a conoscere il valore della legalità non tanto attraverso la sofferenza, ed il sacrificio dei parenti costretti a turni severi per incontrarli, ma piuttosto attraverso lo studio delle vittime di mafia e del pensiero che ha animato la loro vita fino al gesto estremo della morte. Segnali che ha colto l'associazione nazionale dei magistrati con il presidente della sezione di Palermo, Massimo Russo, è approdata anche al Pagliarelli con il progetto legalità e la borsa di studio intitolata al giovane magistrato Luca Crescente, morto prematuramente lo scorso anno. I detenuti, divisi in sei gruppi, si sono confrontati con gli esempi di Emanuela Loi, padre Puglisi, Placido Rizzotto, Joe Petrosino, Giuseppe Montalto, Claudio Domino e libero Grassi. Scrive il gruppo di lavoro che ha ricostruito la vita e le idee di don Pino Puglisi: "Abbiamo capito che antimafia non può equivalere soltanto a porre divieti e a confiscare beni, ma significa soprattutto educazione civica e rendere più effettivi i diritti e creare lavoro". Ed alla domanda cosa ha fatto don Pino, i detenuti hanno risposto: "Ha evangelizzato in una borgata dimenticata, senza neanche una scuola. Ha invitato anche il mafioso a riconoscersi nella fede cristiana ". ed ancora Pasquale, palermitano di 35 anni: "Il messaggio che oggi arriva chiaro è che la mafia è dannosa per l'economia e per la società e per tale ragione" va combattuta attraverso la repressione, ma neanche con una attenta prevenzione. Qui in carcere ­scrive Gaetano, recluso trapanese - è possibile ripensare alla nostra vita secondo una luce diversa. Sogniamo una nuova vita permeata di cultura di legalità nel rispetto di noi stessi e degli altri: una vita che ci possa offrire possibilità di inserimento per un cambiamento reale e positivo. E aggiunge Giuseppe: quando mi sposerò racconterò ai miei figli la mia storia ed il disagio del carcere. Insegnerò loro a vivere onestamente. Da parte di noi palermitani chiedo scusa e perdono alla famiglia di Emanuela Loi. Pensieri nuovi che soffiano dentro il Pagliarelli. Sono segnali da non perdere di vista perché non restino soffocati dal rumore e dal rigore della burocrazia. Sta cambiando il modo di pensare. Oggi i reclusi imparano a guardarsi dentro, a mettersi in discussione. Non sembrano disposti a fare carte false per uscire dal carcere mantenendo intatto il bagaglio di pensieri con cui sono entrati. Lo si è capito lo scorso anno, quando scoppiò l'emergenza idrica e le docce erano diventate un miraggio: "Non chiediamo sconti di pena, né privilegi. Non vogliamo nè indulti od amnistie, ma solo il rispetto della nostra dignità di uomini". Rivendichiamo i nostri diritti, compreso dell'acqua. Ed anche quello di avere un po' di fresco, di potersi difendere dalle zanzare, del rispetto della legge che ha abrogato le vetrate per i colloqui e perché no anche il diritto alla ricotta salata con cui condire un'esistenza di sofferenza che spesso galleggia nell'indifferenza. Alfonsa Bugea

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